19 Febbraio 2016,ore 11.31

FOCUS CP: Salvate il soldato John Terry, la storia del capitano

Terry

Parlare di concetti quali fedeltà e senso di appartenenza nel calcio porta con sé il rischio di trasformarsi in un vuoto esercizio retorico. Parlare di concetti quali fedeltà e senso di appartenenza nel calcio odierno può addirittura risultare ridicolo e sicuramente antistorico. In uno sport che va sempre più allontanandosi dalla polvere del campo e dalla sacralità dello spogliatoio per viaggiare spedito in direzione del business, della pay-tv e del merchandising globale, resiste però ancora una nutrita schiera di appassionati che dà importanza allo sfondo sentimentale della vicenda, che non si arrende alla trasformazione del pallone da oggetto di divertimento e autentica passione a cinico strumento di affari.

Un’altra botta violenta del sistema alle ingenue convinzioni dei sentimentalisti del calcio sta per essere assestata in Inghilterra. È qui, nei pressi di Cobham – nella parte ovest di Londra – che si sta consumando l’addio tra due innamorati di lunga data: John Terry e il Chelsea Football Club. Nell’anonimato di una stagione fallimentare si sta spezzando quel filo che sembrava così solido e indistruttibile tra un capitano e la sua truppa. Il triste silenzio della società londinese – che tanto somiglia all’indifferenza – sta avvolgendo e risucchiando lo storico legame tra il soldato JT e il popolo dei Blues.

LE ORIGINI

I primi calci ad un pallone John George Terry li tira nella prestigiosa Academy del West Ham. È qui che gli stessi lungimiranti istruttori che tanti talenti hanno già regalato e altri ancora regaleranno al calcio inglese vedono del potenziale in questo figlio della Londra anni ‘80. Ma non lo canalizzano al meglio, perché Terry viene impiegato inizialmente da centrocampista. Poi, a 14 anni la svolta: arriva la chiamata del Chelsea, si cambia zona della City e si cambia anche ruolo. Il raggio d’azione del ragazzo viene spostato di qualche metro all’indietro. È al centro della difesa che Terry può dare il meglio di sé e scrivere le prime pagine di un avvincente romanzo fatto di tackles sull’erba, sudore versato e ordini urlati con vigore ai compagni.

Quella del 28 ottobre del 1998 è la prima data segnata in rosso sul calendario della sua carriera. È il giorno dell’esordio tra i grandi, in Football League Cup contro l’Aston Villa. A Gianluca Vialli l’onore di averlo lanciato nel calcio che conta. Per il debutto in Premier c’è da attendere ancora qualche settimana, fino al Boxing Day 1998 contro il Southampton. Un giorno speciale per un giocatore speciale.

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Nel 2000 il giovane Terry viene mandato in prestito per qualche mese in Championship al Nottingham Forest. Giusto il tempo per farsi un po’ le ossa ed essere richiamato in fretta da Ranieri, che nel frattempo ha raccolto il testimone lasciato libero in panchina da Vialli e vuole costruire il suo Chelsea anche sulle forti spalle di questo promettente difensore fatto in casa. La stagione 2000-01 è la prima giocata da protagonista per John Terry, che il 13 gennaio del 2001 in un derby contro l’Arsenal si toglie anche la soddisfazione personale di segnare il primo di una lunga serie di gol in Premier.

L’ascesa di Terry continua senza sosta negli anni seguenti, al fianco di un esperto difensore come Desailly che lo ha preso sotto la sua ala protettrice e lo ha condotto per mano al centro della scena. Fino a lasciarlo lì solo, con una fascia da capitano che non lo abbandonerà più, al punto da diventare quasi un unicum con il suo braccio. JT, il Chelsea e dietro tutti gli altri.

I SUCCESSI

Quello che viene dopo è storia abbastanza nota. Arriva Abramovich e con lui i petroldollari a comprare la gloria. Arriva Mourinho, lo stratega dei successi del grande Chelsea di metà anni 2000, che si affida ciecamente al carisma di Terry per dare inizio alla Golden Age a tinte blu. E arrivano i successi, uno dietro l’altro, a cominciare dal primo, forse il più bello perché quello atteso più a lungo: a 50 anni esatti dall’ultima volta il Chelsea vince il campionato nel 2005, al termine di una cavalcata trionfale guidata in prima linea dal soldato John. Uno di cui ci si può fidare in battaglia, decisamente. Uno che la leadership da competizione ce l’ha scritta nella mappa genetica.

Più capitano di così si muore

Anche dal punto di vista prettamente tecnico la stagione 2004/05 è probabilmente la migliore in assoluto della sua carriera. 53 presenze, 8 gol e una lunga serie di clean sheets convincono i tifosi del Chelsea a eleggerlo miglior giocatore dell’anno (un premio riconosciutogli 3 volte, più di ogni altro nella storia del club) e gli addetti ai lavori della UEFA a nominarlo miglior difensore della Champions League. Quella stessa Champions League che dall’incubo di Mosca si trasformerà nel fantastico sogno della notte dell’Allianz Arena nel maggio del 2012. Ma proprio quel celebre rigore sbagliato contro il Manchester United, quello scivolone beffardo sul più bello e quelle lacrime che si confondevano con la pioggia della tarda primavera russa hanno rappresentato un altro momento di svolta nella storia d’amore tra Terry e il Chelsea. È stato allora, in un momento di dolore dopo tanti di gioia, che il capitano si è rialzato da terra ed è diventato esempio da seguire per i compagni, i quali lo hanno incoronato “Mr. Chelsea” per il carattere e la bravura che lo hanno sempre contraddistinto. In quella notte Terry non ha alzato al cielo la coppa dalle grandi orecchie tanto desiderata (rimandando l’appuntamento col destino solo di qualche anno), ma ha conquistato forse la sua vittoria più bella: quella che ha la forma del rispetto eterno dei compagni di mille battaglie e dei tifosi che si identificano con te.

CAPITOLO FINALE

A meno di graditi colpi di coda dell’ultima ora quella in corso è quindi la passerella d’addio per John Terry al Chelsea. La fascia da capitano indossata con onore e lealtà dal 2004 gli verrà praticamente scucita dal braccio. La maglia blu che ha difeso con tutte le sue forze e la sua classe cambierà colore e probabilmente avrà sul petto lo stemma cool di qualche franchigia americana o gli incomprensibili ideogrammi di qualche improbabile squadra cinese. L’eredità che JT lascerà sul prato dello Stamford Bridge è di quelle pesantissime: primatista di presenze nella storia del Chelsea in tutte le competizioni europee; 3 volte Player of the Year; difensore che ha segnato di più nella storia della Premier; tanti trofei in bacheca con impresse le sue impronte digitali. E soprattutto un senso di smarrimento tra quella gente che lo ha eletto a idolo incontrastato nel corso degli anni.

Se dietro la mancata volontà di rinnovargli il contratto risiedono solo motivazioni di natura economica ci sarebbe da fare una grassa risata. Un club come il Chelsea che comincia a farsi scrupoli di questo genere proprio con uno come lui è un po’ il comportamento di quello stalliere che si precipita a chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati via già da un pezzo. Aldilà del valore tecnico del giocatore (a proposito, quanti sono oggi in Inghilterra i difensori più forti di Terry?) e della sua integrità fisica che non appare certo compromessa, i vertici societari del Chelsea e Abramovich in primis dovrebbero semplicemente guardarsi intorno, tastare un po’ il polso dell’ambiente per accorgersi che il rinnovo in un caso come questo dovrebbe scattare automaticamente almeno per un altro anno. Ma questo club sembra soffrire di una sorta di allergia alle bandiere, se si torna con la mente anche alla dolorosa separazione con Lampard. Il lieto fine della storia d’amore tra Terry e i Blues dovrebbe essere quello che vede il capitano lottare in campo fino a quando se la sente e poi magari sedersi dietro una scrivania. Perché i patrimoni più preziosi andrebbero preservati con cura e ritegno. Perché l’esempio positivo dovrebbe essere tramandato ai posteri al fine di coltivare una dimensione etica fatta di cultura del lavoro e senso di appartenenza, anche e soprattutto in un mondo del calcio sempre più globalizzato e anti-identitario. Perché quando si affronta una tempesta è meglio affondare insieme piuttosto che ammainare la bandiera.

 

Nicola Cicchelli