08 Aprile 2016,ore 13.41

L’INCHIESTA CP, il modello Premier League: pregi e difetti

Calciopremier Inchiesta

La Premier League è nata ufficialmente nel 1992, quando i club della First Division tagliarono il cordone che li legava alla Football League, consci di poter dar vita ad un sistema che, neanche nelle migliori ipotesi, sarebbe potuto arrivare al prodotto visibile oggi. Ma in realtà la massima divisione inglese, quella che adesso osserviamo con grande stupore, pone le sue basi a cavallo degli anni novanta, tra i fantomatici anni della Thatcher e quelli del rapporto Taylor, origine del modello Premier League. Già, perché la leggenda, ma soprattutto il luogo comune, vuole che sia stata proprio la “Lady di Ferro” a cambiare il calcio d’oltremanica, ma questa affermazione merita una precisazione: è sì vero e concreto l’apporto che la politica britannica ha offerto al progresso del football, ma è altrettanto vero che essa ha abbandonato i suoi incarichi nel 1990, due anni prima della fondazione della nuova lega. Dove sta quindi la verità?

Partiamo con il dire che la Premier League è oggi un prodotto a tutti gli effetti, livellato su standard stabiliti a tavolino e capaci di entrare nelle televisioni di 212 paesi diversi ad ogni ora del giorno e della notte, mirando ad un solo risultato: portare il calcio ad essere uno show-business, facendo credere a chi se lo sta godendo che quella sia la strada giusta, assottigliandosi al modello americano di “corporate culture”. Ma, come già detto, la rincorsa a questo paradiso di sterline parte da molto lontano, quando gli introiti erano irrisori rispetto ad oggi e la cultura sportiva inglese era sotto i tacchi.

Il metodo Thatcher, se così può essere chiamato, non è un provvedimento concreto ma più una linea di ferro nei confronti, banalizzando, degli hooligans inglesi e della violenza negli stadi: quello che l’Italia sta provando a fare, con scarsi risultati, con tornelli, tessere del tifoso e quant’altro, a Londra l’avevano capito trenta anni fa. Ne è passato di tempo dal periodo in cui l’Inghilterra calcistica guardò nella sua coscienza e capì che per sopravvivere era necessario un cambiamento, che in un primo momento fallì, poiché la tragedia di Hillsborough, che provocò la morte di 96 persone, fu l’apice di una politica di repressione che aveva trasformato gli stadi in veri e propri zoo, portando un’illusoria sicurezza da una parte ma aumentando il rischio dall’altra, ricalcando il concetto dei vasi comunicanti, dove anche se si mette più acqua da una parte il livello di essa si alzerà univocamente. In uno degli ultimi provvedimenti della sua carriera, la Thatcher diede vita sotto la sua giurisdizione al rapporto Taylor, redatto per far luce sulla strage di Hillsborough ma divenuto il caposaldo della rinascita degli impianti inglesi: qui vennero indicate le nuove direttive per la costruzione o la ristrutturazione delle arene di prima e seconda divisione, dove dovevano essere aboliti i posti in piedi in favore di quelli a sedere, gli unici a norma da quel momento, andando a legiferare anche in materia di sicurezza esterna allo stadio, introducendo tornelli, barre metalliche, regolando la vendita di alcolici e somministrando notevoli cambiamenti alla distribuzione e alla stima dei biglietti d’accesso.

Una crescita esponenziale dovuta ad un cambiamento radicale, che ha portato la Premier a staccare i restanti campionati calcistici europei e mondiali in modo devastante: basti pensare che nel 1990 i diritti televisivi per la Premiership, pagati dalla Bbc, ammontavano a tre milioni, con i quali adesso non si potrebbe vedere neanche mezz’ora di un match inglese, valutati per il triennio 2016/2019 con la cifra record di 7,125 miliardi di euro.

A voi i commenti. Credits to SportIntelligence.
A voi i commenti. Credits to SportIntelligence.

Il modello Premier nasce dunque dalla consapevolezza dei propri mezzi sia dei club anglosassoni ma anche degli organi amministrativi che controllano il calcio di Sua Maestà: tra un paio di minuti la storia del Leicester di Ranieri vi apparirà meno insolita di quanto possa sembrare. Esistono cinque punti grazie ai quali possiamo denotare il grande boom della Premier: innanzitutto, tutta la premessa raccontatavi fino ad ora serve a farvi capire il taglio netto con il passato, necessario per porre basi solide alla creazione di un progetto a lungo termine con un potenziale infinito.

Il primo passo fu dunque il distacco dalla Football League, unito alla battaglia contro la violenza ed al rapporto Taylor.

Successivamente, grazie a quest’ultimo si riuscì a dotare i club con stadi di proprietà, che iniziarono ad accogliere le famiglie e creare una generazione 2.0 di impianti all’avanguardia, capaci di ospitare le partite in un’atmosfera ottimale, sia dentro che fuori dal campo. Gli inglesi compresero infatti che le proprie strutture dovevano uscire dalla concezione nuda e cruda per buttarsi verso un nuovo tipo di idea, quella del business legato allo stadio, centro di aggregazione e punto di incontro, aperto 365 giorni l’anno e non più il sabato o la domenica. Fu così che tutti i club si misero a lavoro, chi rinnovando il proprio impianto, legandolo ancor di più alla storia centenaria ed al legame con i tifosi, chi invece, mattone dopo mattone, regalando ai fan nuovi gioielli nei quali sostenere la propria squadra: nacquero così il Britannia Stadium e lo Stadium of Light, completati nel giro di un anno. Ma a cavallo del quinquennio 1995/2000 si può notare come ogni impianto inglese abbia subito una ristrutturazione secondo le linee impostegli. Tuttavia, non smisero di sorgerne di nuovi, dando vita ad una transizione tra la generazione di stadi nata agli sgoccioli del passato millennio e quella tutt’ora in cantiere: gli esempi più eclatanti sono il City of Manchester, ribattezzato Ethiad Stadium, campo del Manchester City ma, udite udite, non di proprietà dei Citizens, bensì del comune della città, e l’Emirates, successore dell’antenato Highbury e nuova casa dell’Arsenal, che nel 2006 inaugurò il suo gioiello da 390 milioni di sterline.

Panoramica esclusiva dell'Emirates Stadium
Panoramica esclusiva dell’Emirates Stadium

Inoltre, nel 1995 le partecipanti alla Premier League vennero ridotte da 22 a 20, rendendo il prodotto uniforme e più facilmente esportabile. Questa premessa ci introduce al terzo punto, ovvero quello riguardante il trittico marketing, sponsor e televisioni. Sì, perché la Premier prima di essere un campionato sportivo divenuto un marchio, è un sistema dentro al quale tutto ha un perché ed ogni decisione è presa nel bene comune: per esempio, se guardate bene, tutti i terreni in Inghilterra risultano della stessa tonalità di verde, rendendo dunque questa caratteristica propria del prodotto, riconoscibile quindi anche al di fuori dei confini nazionali, dove lo spettatore collegherà quella tipologia di erba alla Premier. Da questa banale considerazione si può inoltre trarre spunto per parlare di come il marketing delle inglesi, soprattutto delle Big Four, ovvero Arsenal, Chelsea, Manchester United e Liverpool, alle quali dobbiamo aggiungere ormai anche Manchester City e Tottenham, sia un elemento che influisce molto nel bilancio societario, in netta contrapposizione a quello che accade per esempio in Italia, dove i diritti televisivi rappresentano la fetta più grande della torta. Il modello più lampante ed efficace è quello dei Red Devils, che grazie al merchandising hanno reso il proprio brand il più “forte” tra le società calcistiche, divenendo la prima società a far sì che questo possa valere oltre il miliardo, staccando Bayern Monaco e Real Madrid. Una crescita spaventosa, visto che nel 2011/2012 la valutazione si aggirava sui 853 milioni di euro. Grazie all’attività di socializzazione nel binomio club-tifoso, abbiamo lo spostamento di quest’ultimo verso un rapporto tra un venditore ed un consumatore, legato però non solo ad un fabbisogno principale, ma stimolato dalla passione per ciò di cui usufruisce. Il Manchester United è riuscito a far tesoro di questa nuova frontiera di introiti, portando il marketing del club ad un livello superiore, capitalizzando l’investimento fatto sul marchio, ovvero sul nome e sul logo della società. Secondo quanto riportato, il club dei Glazer esporta in modo uguale sia nella vendita all’ingrosso che in quella al dettaglio, rendendo la società capace di basare la propria economia non solo sui risultati della squadra, ma anche su una forte componente in termini di appeal. Per raggiungere questo status, il Manchester United ha investito tanto per rendere i propri elementi unici e riconducibili al proprio marchio: innanzitutto, ha trasformato Old Trafford in un vero tempio del calcio, creando al suo interno anche un museo che racconta le gesta delle icone del club, rese leggendarie e trasportate nell’immaginario collettivo. Inoltre, i Glazer hanno saputo cogliere, anticipando i tempi, la grande risorsa portata dai mercati orientali e statunitensi, miniere d’oro ancora non del tutto esplorate.

Se qualcuno non sapesse chi siano i Glazer, questo ci aiuta ad entrare nel quarto punto, ovvero nella proprietà dei club, sempre più in mano ad imprenditori stranieri: sono infatti 29 i club in mano a potenze estere nelle prime tre divisioni del calcio inglese, di cui tre italiani, con Cellino, Pozzo ed il meno conosciuto Becchetti, proprietario del Leyton Orient di Sannino. Questa grande globalizzazione ha portato non solo idee nuove, ma anche, e soprattutto, denaro fresco: la preoccupazione delle autorità riguarda le tasse, mentre i tifosi sembrano vedere di buon occhio questo via vai di magnati, come nel caso di Chelsea e Manchester City, portate grazie ad Abrahmovic ed allo sceicco Mansour ad una rinascita in divenire. Infine, possiamo notare come molti imprenditori vedano i propri possedimenti calcistici come un “giocattolo”, poiché la loro vera occupazione porta introiti che possono permettere anche perdite numerose negli investimenti sportivi. Questa classe dirigente multietnica ha permesso una facile esportazione del marchi, notabile anche dal fatto che, per esempio, si continua a dar grande spazio al mercato in India, ex colonia britannica ed enorme bacino d’utenza della Premier fin dagli anni ’70: vi siete mai chiesti perchè in Inghilterra giocano ad orari sempre diversi? Beh, forse la risposta sta nel fuso orario. Dal lontano 1983, quando il Tottenham fu la prima società calcistica inglese a quotarsi in borsa, di tempo ne è passato…

Il quinto punto riguarda i diritti televisivi: è cosa nota che in Inghilterra gli introiti derivanti dalla distribuzione delle licenze di trasmissione dei match siano schizzati alle stelle, ma fermiamoci ad analizzare meglio i perché di questo fenomeno. Intanto, la Premier ha creato uno spettacolo godibile: partite sempre in discussione, stadi pieni, valore tecnico alto e la passione che ancora si riesce a respirare tutta intorno. Ragionando sul fatto che il valore del calcio europeo si aggira intorno ai 20 bilioni, di cui almeno 9,5 rappresentati dai cinque maggiori campionati, dei quali fa parte la Premier, possiamo vedere come le cifre siano già a favore di una ristretta cerchia di leghe. Eliminando quindi le restanti, si può notare come la stessa Premier sia di gran lunga quella con il più alto numero di denaro che circola al suo interno: questo fattore si evidenzia quindi anche nella spartizione dei diritti televisivi. Ma andiamo con ordine: come già detto, se ad inizio degli anni ’90 le cifre erano “irrisorie”, già nel quinquennio 1992/1997 si avevano incassi per 270 milioni complessivi derivanti dalle concessioni televisive, per poi arrivare più o meno ai tre miliardi odierni. Il vero picco sarà però quello del prossimo triennio, un incentivo in più per i club a rimanere in Premier: il contratto record da 7,125 miliardi ha aperto un varco nell’ordine degli eventi, scaraventando il campionato inglese dentro ad un vortice del quale non si riesce a capire il vero effetto. Se alla fine dello scorso secolo la ripartizione degli introiti nelle società britanniche era all’incirca per il 33% rappresentato dai biglietti, un altro 33% dalle Tv ed altrettanto dal merchadising, adesso questa spartizione si è innalzata, incrementandosi notevolmente e difficilmente uniformabile per tutti i club.

La tabella recante i dati della distribuzione dei diritti televisivi della Premier League tra le venti squadre della stagione 2014/2015.
La tabella recante i dati della distribuzione dei diritti televisivi della Premier League tra le venti squadre della stagione 2014/2015.

Il vero punto di forza del sistema dei diritti televisivi inglese, chiamato “To-Be”, sta nell’equa ripartizione dei beni: se, come spiegato da Simon Chardwich dell’Università di Coventry, è impossibile calcolare quanto vale l’economia della Premier, è altrettanto impossibile sapere se questo è davvero il giusto metodo di distribuzione degli introiti. A differenza dell’Italia, dove tra la prima e l’ultima c’è una forbice di incasso notevole, in Inghilterra, c’è una parte fissa, ovvero il 50% dei diritti nazionali divisi in parti uguali, un 25% che dipende dalla trasmissione o meno della partita in Tv, argomento che affronteremo tra un attimo, e un altro 25% dalla posizione finale in campionato. Un metodo equo che ha portato l’ultima di Premier ad avere un fatturato simile a quello della Juventus, dominatrice della scena italiana degli ultimi anni. Vanno però fatte due considerazioni: la prima riguarda la differenza con l’Italia, che a sua discolpa ha le minori entrate complessive, che non porterebbero gli stessi risultati del modello “To-Be” anche nel Belpaese; la seconda tratta invece le partite trasmesse, poiché in Inghilterra vengono diffusi solo gli anticipi ed i posticipi, mentre nel resto del mondo possiamo ammirare tutte le partite del campionato inglese, perchè la gente deve andare allo stadio, non stare a poltrire a casa sparando giudizi da una poltrona. In campo internazionale non sembra però portare dare grandi benefici: con la caduta libera della Premier nel ranking Uefa fino al terzo posto, a pochi punti dalla claudicante Italia, abbiamo notato come, ad oggi, questo metodo non favorisca le imprese fuori dai confini dei club, anche se la situazione è destinata a cambiare con l’aumento dl 70% delle entrate dalle emittenti.

Con l’impennata dei diritti televisivi, anche i fatturati delle società britanniche subiranno un notevole incremento, aumentando il gap quasi definitivo con i restanti campionati. La Premier ha inoltre creato un Parachute Payment, ovvero un fondo “paracadute” per coloro che retrocedono, dando quattro anni di aiuti per far sì che lo sbalzo in Championship e l’enorme diminuzione delle entrate non portino la società sull’orlo della crisi, talvolta fatale. Questo è un controsenso per due motivi: intanto premia un fallimento, inoltre avvantaggia le retrocesse rispetto a coloro che già militano nel campionato, facilitandone la risalita.

Ecco i cinque punti che hanno contribuito alla nascita del prodotto Premier
Ecco i cinque punti che hanno contribuito alla nascita del prodotto Premier

Ma siamo sicuri che tutto questo ben di Dio sia ancora controllabile? Oppure la Premier è solo un prodotto funzionale con effetti dominabili? Bene, prima parlavamo di quanto l’exploit del Leicester di turno sarebbe dovuto esser prevedibile: così, mentre noi tifiamo dal nostro divano per le Foxes in preda ad un patriottismo convulso verso Claudio Ranieri, qualche economista in Inghilterra sogghigna un “I told you so”, ve l’avevo detto.

Il fenomeno Leicester è la conseguenza di tutto questo sistema che non possiamo dire si stia inceppando, ma certamente sta diventando incontrollabile, o quanto meno con effetti dominabili solo in parte. Perché la distribuzione “To-Be” porta i club di fascia bassa a spendere quanto un top team italiano, che solitamente si accontenta di acquisti da 10 milioni, mentre una qualsiasi società inglese di Premier può mettere tranquillamente sul piatto anche venticinque milioni, foraggiando il giocatore con uno stipendio da capogiro, aumentando il livello del campionato, più imprevedibile e meno scontato rispetto agli anni precedenti. Il continuo arrivo di giocatori dall’estero, inoltre, ha danneggiato nello scorso periodo le Accademie britanniche, che adesso stanno però dando i loro frutti con una generazione d’oro, utile come non mai per valorizzare ancor di più il fascino della lega.

Come detto, questo potrebbe essere l’anno Zero su vari fronti per la Premier League: lo scudetto del Leicester potrebbe essere ricordato non solo per come questi ragazzi ci hanno fatto innamorare della loro storia, ma anche il sintomo che qualcosa, almeno nel calcio inglese, sta cambiando. Football, passione, fiori di sterline e tanto, tanto divertimento. Cosa ci resta da dirvi, “enjoy the show”.

GIACOMO BRUNETTI

Twitter: @giacomobrun24