Il suo soprannome inglese è The Tinkerman, ovvero colui che “giocherella come un bambino, mettendo qualcosa qua e qualcosa là, senza essere deciso e decisivo“: Claudio Ranieri ha decisamente ribaltato questa definizione, adesso obsoleta che si prostra a lui come un nuovo uomo in cerca del giusto significato. Ma c’è una parola che contraddistingue il suo Leicester, ovvero mentality, possibilmente vincente: è arrivato in Inghilterra a sorpresa, quando in Italia lo davano per bollito ed in terra britannica tutti si ricordavano del vecchio The Tinkerman, quello del Chelsea. Ha sovvertito ogni pronostico, facendo sognare tutta l’Europa, anche quelli che di Leicester ne ignoravano l’esistenza: che dovesse essere una favola si era già capito quando Vardy era passato dalla fabbrica al record di reti consecutive in Premier League nel giro di tre anni, ma il mondo va veloce e restare al passo con i sogni stessi talvolta non è facile. Non per Claudio, non per Jamie, non per i Foxes.
Ma qual’è la chiave tattica del suo Leicester? Parlavamo di mentalità: bene, in questo caso abbiamo un vero e proprio mix tra tattica italiana ed intensità inglese. Per una volta, in Premier l’ordine della formazione fa la differenza: spesso trascurato per favorire lo spettacolo e l’intensità, adesso è alla base del successo della squadra del Nord dell’Inghilterra. Un 4-4-1-1 mascherato, che diventa 4-2-3-1, il modulo più utilizzato quest’anno nel campionato britannico, ma anche un 4-5-1 in piena regola, che arretra fino a sei giocatori sulla linea difensiva: non un gioco spettacolare, ma quando ogni uomo ha un ruolo ad hoc in un sistema che lo comprende per meriti, esso difficilmente fallirà. Analizziamo ogni reparto e capiamo la ricetta magica di Ranieri.
In porta c’è Kasper Schmeichel, figlio di Peter, uno che di clean sheet se ne intende. Arrivato alla soglia dei trent’anni, ha iniziato la sua carriera nella sponda di Manchester opposta a quella che aveva reso suo padre un campione, ma dove esso aveva chiuso la sua storia calcistica: dopo un grande girovagare nelle serie minori, ecco che nel 2011 arriva l’acquisto da parte del Leicester. Una crescita esponenziale, la sicurezza dei grandi portieri e l’interesse del Barcelona: ha trovato la consacrazione troppo tardi rispetto alle sue qualità, ma se i Foxes sono ancora lassù, è anche merito delle sue numerose reti inviolate, soprattutto delle cinque consecutive tra marzo ed aprile. Le sue parole ci aiuteranno ad entrare nel suo mondo, diventato anche quello di tutti noi: “La comunicazione è tutto, quando sono in campo parlo il più possibile con i quattro difensori davanti a me. Voglio che tutti diano il massimo per aiutarmi a tenere la porta inviolata, devono lasciare il campo esausti come se avessero combattuto una battaglia. Difendere non è così difficile, bisogna essere umili e lavorare tantissimo, dando sempre tutto quello che si ha.
Difendere è uno sforzo di squadra, da Drinkwater a Kanté, da Vardy a Okazaki, tutti si mettono a disposizione della squadra e si sacrificano per i compagni. Guardando le statistiche, nella partita con il Southampton i nostri avversari hanno effettuato ben 46 cross dentro l’area e siamo sempre riusciti a liberare l’area, ciò significa che in difesa non lavorano solo in quattro, ma tutti e dieci. La mia ambizione è e sarà sempre quella di giocare in Premier League. Ho lavorato molto duramente per arrivare fin qui e ora voglio restarci, sempre con questa maglia. Sono nel club che mi ha accolto e si è sempre preso cura di me, qui mi diverto e non vedo perché dovrei andarmene”.

La difesa è affidata a quattro veterani del calcio europeo: Christian Fuchs, un passato in Germania, un presente da uomo assist ed un futuro in NFL, sognando di giocare a football, quello americano, dopo aver appeso le scarpette al chiodo; al centro Wes Morgan e Robert Huth, veterani della Premier League che hanno fatto del proverbio “la miglior difesa è l’attacco” una semplice frase, ribaltando il soggetto e andando a segno nei momenti più difficili, dall’Ethiad Stadium fino alla rete del centrale giamaicano contro il Southampton; a chiudere il quartetto c’è Danny Simpson, che si alterna con Schlupp, roccioso terzino cresciuto molto nell’ultimo anno, nel quale ha imparato tantissimo dal mago tattico Ranieri.

Ma è il centrocampo la vera chiave di volta dello schieramento del Leicester: se l’allenatore italiano ha esportato la formula difensiva vincente, educando i quattro sovracitati elevandoli a giocatori di alto livello, lo scouting e la programmazione della società hanno portato ad un risultato soddisfacente nella linea mediana del campo. Un reparto mobile ma al tempo stesso compatto, fatto di talento, intuizione e solidità. “Ma quanto corre Kantè“, ripete spesso Ranieri: basta guardare il francese per capire anche solo lo spirito di questo club, che non molla un centimetro in campo. “Se gli avversari saranno più bravi gli stringeremo la mano, ma prima devono passare su di noi”, il dogma di The Tinkerman è chiaro. La scoperta Drinkwater ed il transalpino rendono la tattica dei Foxes un elemento degno di uno studio: entrambe sconosciuti, entrambe riciclati e rilanciati dalla squadra inglese, formano una coppia che si completa a vincenda, degna dei migliori matrimoni. L’interdizione unita alla classe, l’intensità che si sposa con l’intelligenza delle mosse: una vera e propria diga pronta a scoccare la giusta freccia per chi sta davanti. Sulle corsie esterne troviamo due ragazzi agli antipodi: da una parte la classe algerina di Riyad Mahrez, dall’altra la corsa e la sete di rivincita di Marc Albrighton, cresciuto nell’Aston Villa e finalmente arrivato ai livelli che gli venivano predetti quando ancora era un ragazzino. Uno attacca, crea, segna ed impressiona il mondo, l’altro suda, si sacrifica e ripiega, raddoppiando ma scattando anche in avanti, come in occasione del gol del secondo gol di Ulloa contro lo Swansea. Al centro, più avanzato, il trequartista nipponico Okazaki, jolly che ha deciso la sfida con il Newcastle con una rovesciata da film: lui corre e rincorre, agendo da scudiero di Vardy, che non si dispenda comunque dal pressing sul primo portatore di palla.

Già, Jamie Vardy, l’uomo che ha colorato di azzurro i nostri occhi, disputando la stagione dei sogni: l’umiltà e la voglia di farsi vedere, pronto a combattere per emergere. I lanci di Drinkwater per il numero nove sono degni del miglior museo d’arte: Ranieri ha saputo valorizzare le sue caratteristiche, dalla grande propensione al sacrificio fino alla spiccata dote realizzativa, che ha aumentato la finalizzazione dell’attaccante inglese fino a gol incredibili come quello contro il Liverpool.
Ha ammesso di parlare poco di tattica ai suoi giocatori, spaventati ad inizio stagione dalla cascata di sapienza italiana in tal campo, impauriti dal timore di rimanere ingabbiati negli schemi a discapito della fantasia: Ranieri, nonostante non lo dica pubblicamente, è riuscito invece a creare un gioiello sotto questo punto di vista. “Voi correte e date tutto, al resto ci penso io”, dire che si sono capiti.
Ci sarebbe da scrivere un trattato, ma ci limitiamo a questa semplice analisi. La Premier League ha riscoperto l’efficenza del made in Italy, della tattica nostrana, etichettata come difensivista ma che sta tornando a dare i suoi frutti: il gioco del Leicester non sarà spumeggiante, anzi ricorda molto il cholismo di Simeone, dove tutti danno l’anima per il compagno, tutti danno il cuore per la maglia, tutti sognano per l’unico obiettivo. Ma nonostante tutto, adesso è vero: il gol nel teatro dei sogni gli ha regalato il risveglio più bello.
Giacomo Brunetti
Twitter: @giacomobrun24