14 Aprile 2016,ore 12.15

FOCUS CP In via di estinzione

Andy Carroll

Ariete: “Si tratta del primo segno zodiacale dell’astrologia occidentale. Secondo quest’ultima, le persone con posizioni di rilievo in questo segno – che coincide con l’arrivo della primavera e il riaffermarsi della vita dopo la stagione invernale – sono energiche, rapide, impulsive ed entusiaste. […] Sono portate più all’azione che alla riflessione e tendono ad affrontare la vita a testa alta.” (Liberamente tratto da Wikipedia)

Ora, io non sono esattamente un fan dell’astrologia e, anzi, disinteressato cambio canale quando in tv mi imbatto in trasmissioni che parlano di segni zodiacali, influsso delle stelle e amore/lavoro regolati dal ciclo celeste. Ma è sorprendente notare la coincidenza quasi chirurgica tra la descrizione dell’Ariete zodiacale e le caratteristiche peculiari del cosiddetto ‘ariete’ calcistico. Energia, impulsività, entusiasmo, propensione naturale all’azione piuttosto che alla riflessione: sono tutte manifestazioni dell’indole di una persona che, traslate su un campo da calcio, rappresentano al tempo stesso i tratti distintivi dell’ariete d’area di rigore, il grande, vecchio e caro centravanti di sfondamento.

Negli ultimi anni il calcio è cambiato tanto, trasformandosi rapidamente in uno sport nel quale la fanno da padrone tatticismo elaborato, atletismo esasperato e fluidità di manovra e di posizioni in campo. Dal gioco compassato, ragionato, a tratti noioso, tipico degli anni ’70 e ’80 in cui i protagonisti erano perlopiù giocatori longilinei e lenti, si è arrivati oggi – dopo un processo evolutivo la cui tappa iniziale si può convenzionalmente fissare nei Mondiali di Francia ’98 – a un gioco dai ritmi infernali, frenetico e verticale, muscolare ed esplosivo, che richiede ai suoi interpreti un grande dispendio di energie fisiche e mentali e un corpo allenato tanto quanto (se non più) l’aspetto tecnico-tattico. Il calcio moderno è contraddistinto da elementi ricorrenti quali velocità, spazi stretti, flessibilità estrema dei moduli di gioco, gioco di posizione e ‘falsi attaccanti’. Ci stiamo ormai abituando alla scomparsa del nostalgico 4-4-2, del trequartista che gioca (solo) dietro le punte, dei cross dal fondo col piede forte (soppiantato ormai quasi ovunque dagli esterni a piede invertito che cercano la conclusione a rete o l’imbucata verticale) e dei lanci lunghi dalla difesa a scavalcare completamente il centrocampo.

NUOVO ORDINE VS OLD SCHOOL

In questo scenario mutato a pagare maggiormente sono stati proprio i centravanti più tradizionali. I numeri 9 vecchio stampo che non brillano certo per velocità, tecnica e mobilità, ma puntano tutto su forza fisica, gioco aereo e presenza in area di rigore. Avete presente Ronaldo “il Fenomeno” e l’impatto devastante, per certi versi rivoluzionario, avuto sulla Serie A di fine anni ’90? Ecco, se c’è un solo, lontanissimo motivo per “maledire” il fuoriclasse brasiliano, per (ri)guardare con un po’ di rabbia (tra la sacrosanta ammirazione generale) le sue azioni nel periodo d’oro, quel motivo è proprio da rintracciare nel significato epocale della sua apparizione sulle scene internazionali. Abbiamo visto giocare Ronaldo, ce ne siamo follemente innamorati e niente è più stato come prima. Poi, nel solco tracciato dal “Fenomeno”, sono arrivati i Messi, i Cristiano Ronaldo, i Suarez, i Rooney e i falsi nueve di marca iberica, offrendoci un prodotto spettacolare e un’interpretazione totalmente diversa del ruolo di prima punta. Pochi e inimitabili i vecchi modelli, quegli attaccanti che hanno saputo dominare la scena nonostante i profondi cambiamenti in atto. Shearer e Vieri su tutti, tanto per fare dei nomi. Belli perché brutti, sporchi e cattivi.

Vieri

Se almeno una volta non ti sei spaccato la testa in campo, non puoi definirti un vero centravanti

Poi poco altro, il nuovo corso del calcio ha messo uno ad uno in soffitta i classici centravanti-boa attorno ai quali far ruotare una seconda punta tecnica e dinamica. Questi interpreti tradizionali del ruolo sono ormai fossili di un’era passata, eppure qualcuno resiste. C’è ancora chi esala gli ultimi fieri respiri tra lo scetticismo generale, visto con una punta di snobismo dai nuovi esteti del calcio. Una specie protetta, una specie da custodire con cura.

CARROLL E CO.

In Premier League, campionato storicamente fisico, sopravvive nonostante tutto un nucleo di resistenza all’evoluzione formato da centravanti che – tra alti e bassi – provano a perpetuare la specie e ad alimentare il fuoco sacro di una tradizione tanto vecchia quanto romantica.

Andy Carroll è il capofila di questi ultimi Mohicani. Dei 39 gol segnati in Premier ben 21 sono stati realizzati di testa, fondamentale in cui si pone tra i migliori al mondo. Nello scoppiettante 3-3 contro l’Arsenal di sabato scorso il gigante inglese ha letteralmente dominato la scena, facendo venire gli incubi alla retroguardia dei Gunners e portando per un pomeriggio indietro di decenni la macchina del tempo. La tripletta segnata in pochi minuti può essere salutata come il personale tributo di un giocatore a un’epoca passata. Utpon Park si è trasformato in una fiera vintage e Carroll nell’ideale interprete animato del manuale intitolato: “Come si diventa ariete d’area di rigore”.

Personalmente ho sempre nutrito una grande considerazione per Carroll. Ai tempi del Newcastle fu amore a prima vista ed ero pronto a scommettere ad occhi chiusi sul suo brillante futuro. Giovane, vigoroso e scaltro, dotato di un tiro potente e preciso (oltre alle già citate formidabili capacità acrobatiche), in maglia bianconera ha segnato con ottima regolarità, diventando l’idolo locale e conquistando prime pagine, Nazionale e attenzione delle big inglesi. Sì, macchinoso e carente di soluzioni alternative a un gioco prevalentemente fisico lo è sempre stato, ma non è facile resistere al fascino di un carrarmato con la faccia da attore. Il Liverpool, per esempio, non ce l’ha fatta e nel gennaio del 2011 lo ha acquistato per la “modica” cifra di 42 milioni di euro (secondo giocatore inglese più pagato della storia, dietro Rio Ferdinand). L’avventura con i Reds comincia però malissimo a causa di un infortunio muscolare che ne fa slittare l’esordio dopo 2 mesi e si rivela in definitiva piatta, fino alla cessione al West Ham nel 2012. Anche nell’East London però la musica non cambia e Carroll è perseguitato da continui infortuni che ne frenano la consacrazione definitiva. Ma non si può accusare solo la malasorte – sotto forma di continui e gravi incidenti fisici – per giustificare il rendimento altalenante del centravanti inglese.  Un carattere fumantino (famoso il suo pugno al compagno di squadra Taylor ai tempi del Newcastle), una vita mondana fuori dal campo non esattamente da professionista esemplare e contesti di squadra mai davvero adatti alle sue caratteristiche, hanno contribuito a fare di Andy Carroll un protagonista incompiuto del calcio britannico. O meglio, l’invitato che si presenta alla festa con 30 anni di ritardo e, lo stesso, pretende di voler ballare.

Il manifesto programmatico del centravanti

Ma Carroll non è solo nella sua crociata. Tra gli altri centravanti “vecchio stile” della Premier League 2015/16, ce ne sono alcuni sicuramente degni di nota. C’è Troy Deeney del Watford, per esempio: basso rispetto agli standard richiesti dalla categoria, ma comunque giocatore molto fisico e capace di segnare già 9 gol (tutti in area di rigore, 2 di testa) alla sua prima stagione nella massima serie; ci sono poi gli avanti dei Saints, Pellè e Austin, entrambi abilissimi sotto porta e alternati da Koeman nel ruolo di prima punta; ci sarebbe anche Mitrovic del Newcastle, che non sta facendo benissimo alla sua prima esperienza in Premier ma è pur vero che paga a caro prezzo la maledetta stagione dei Magpies e sembra avere tutto ciò che serve per sfondare, in primis la carta d’identità.

Pellè

Volevo mettere una foto di Deeney, ma per motivi estetici ho preferito virare sul Graziano nazionale

E poi ci sono quei numeri 9 un po’ dimenticati, che occupano spazio di troppo nelle panchine di alcuni club di Premier con la loro presenza ingombrante. Il primo e più importante nome in tal senso è sicuramente quello di Benteke, che a Liverpool fatica più del previsto ad adattarsi alle direttive di Klopp. Il manager tedesco predilige attaccanti rapidi e leggeri per lo sviluppo del suo sistema di gioco fluido e dinamico, mentre il giocatore belga – non avendo l’abilità tecnica e la capacità di reinventarsi di un Lewandowski – è un animale d’area di rigore e non a caso i pochi gol segnati quest’anno sono arrivati tutti all’interno dei 16 metri.

 

Altri “dinosauri”? Lambert (WBA), generoso ma complessivamente limitato; Crouch (Stoke), altissimo ma non potente;  Lafferty (Norwich), potente ma marginale; Ulloa (Leicester), la ruota di scorta di Ranieri in alternativa al super-Vardy di questa stagione. Menzione di solidarietà, infine, per Libor Kozak: alla Lazio giurano di non averlo mai visto fare 3 palleggi di fila, all’Aston Villa (complice un grave infortunio) non l’hanno mai visto e basta.

RESTO D’EUROPA

Detto della Premier League dove – tolti i più moderni Lukaku e Giroud – il primo old striker in classifica marcatori è Pellè con 10 gol e l’ennesima stagione chiusa in doppia cifra, negli altri campionati europei si nota ancora più sensibilmente lo scarto esistente tra gli attaccanti di oggi e quelli di una volta.

Nella Liga spagnola – dominata in lungo e in largo ormai da anni dagli extraterrestri di Barça e Real – il fiero portabandiera è il basco Aduriz il quale, alla soglia del pensionamento calcistico, sta giocando la miglior stagione della sua carriera, arrivando persino a conquistare la maglia della Nazionale iberica.

In Bundesliga – escluso per manifesta superiorità tecnica Lewandowski – è un trionfo di attaccanti leggeri e versatili in classifica marcatori. Bisogna scorrere la lista e leggere i nomi di Aubameyang, Muller, Hernandez e Kalou prima di salutare con affetto e nostalgia l’inossidabile Claudio Pizarro, il peruviano ex Bayern che con 12 gol sta provando a salvare il Werder Brema.

In Serie A la situazione è ancora più tragica. L’unico attualmente in doppia cifra (10) è il genoano Pavoletti, degno rappresentante della specie protetta. Dietro di lui, fermi rispettivamente a quota 9 e 8, Belotti e Ciofani.

Insomma, l’allarme sta suonando da un pezzo. Adesso resta da capire soltanto se si tratta dell’avviso di fine show o della chiamata in extremis per un ultimo tango nell’area piccola.

 

NICOLA CICCHELLI